Voglio accompagnarvi lungo le strade di Saracena. Voglio che vediate l’imbrunire del 19 febbraio come non l’avete mai visto, anche quest’anno in cui possiamo solo immaginarlo. Questa è la festa in cui saltano tutti i classici schemi religiosi, l’occasione per ritrovare l’autentico spirito della comunità: San Leone non è solo un santo, è l’identità stessa di un popolo laborioso e spontaneo che ritorna alle sue radici.
Il freddo è pungente e l’aria, profumata di rami d’ulivo recisi e legna secca, accatastati in grandi quantità e addossati ai muri delle case, presto si riempirà di un nuovo odore: quello del fuoco che brucia in onore del Santo Patrono a cui i saracenari rivolgono preghiere e richieste e che stasera, come da quasi mille anni, celebreranno rumorosamente, gioiosamente.
I “fucarazzi” , falò imponenti allestiti in ogni quartiere, bruciano in attesa del passaggio del vessillo portato in corteo al posto della statua e ancora fuoco accompagna il percorso nei vicoli del paesino: le “varvasche” – fiaccole di cera anticamente ricavate dal tasso barbasco, erba spontanea del Pollino – si contano numerose e formano un fiume rosso e scoppiettante che, partendo dalla chiesa, prega e purifica l’aria al suo passaggio, scacciando il male e predisponendo la natura alla rinascita, in un evidente intreccio fra rito cristiano e pagano.
Preghiere sì, ma soprattutto canti e balli che rimandano alla tradizione contadina e pastorale calabrese, coi suoi strumenti tipici: fisarmoniche, “ciaramedde”(zampogne tradizionali), “cupu cupu”(secchi rivestiti con pelle di pecora bucati nella parte superiore in cui viene inserita una canna ) e “ciancianedde”( rami decorati con fiocchi variopinti e campanelli, che svettano sui fedeli producendo rumore, con chiara funzione apotropaica).
A riscaldare l’aria e gli animi contribuisce il vino, rosso e di produzione locale, meglio ancora se familiare, che colorisce le gote e alleggerisce lo spirito, spingendo i fedeli a danzare, intrecciando le proprie mani per creare cerchi e saltellare al ritmo di antiche tarantelle che davvero poco hanno di sacro. Si ride, si schiamazza, qualcuno urla “viva San Leone!” o “semp Santu Liun’!” e la folla festante risponde in coro al richiamo, in una manifestazione di gioia collettiva che diventa a tratti euforia.
Intorno a noi scorre tutto il paese: si parte dalle strade dritte e anonime della parte superiore e moderna per poi addentrarsi nel cuore originario del borgo, il centro storico arabo-bizantino dalle architetture articolare, complesse e allo stesso tempo semplici che costituiscono la “kasbah” di Saracena, gioiello unico e prezioso.
Il serpente di gente risale dalla parte più bassa dell’abitato, l’antica piazza Scarano, e c’è chi corre per raggiungere prima degli altri piazza Santo Lio, posizionata a metá fra il borgo nuovo e quello antico, dove il portone spalancato della chiesa madre attende il corteo per il culmine della serata: i balli e i canti sull’altare maggiore, sotto l’occhio paterno della statua di San Leone Vescovo, posta in alto perché tutti possano ammirarla, pronta ad ascoltare l’inno del protettore e le acclamazioni urlate a squarciagola, ostentate.
La chiesa si riempie, è gremita. Fedeli, ospiti e curiosi accorsi dai paesi limitrofi trovano posto dove possono, anche in piedi sui banconi, per vedere i gruppi colorati che, attraverso la navata principale, raggiungono l’altare e lì danzano fragorosamente per ringraziare il santo che scacciò la carestia e salvò la comunità, legandola indissolubilmente a sé. Così si manifestano fede e devozione e al contempo ci si libera delle paure per vivere un momento di spensieratezza totale, certi che San Leone comprenderà i nostri gesti, che non ci importa vengano capiti dagli altri: ciò che davvero conta è che Lui ci ascolti, ci abbracci, ci accolga a modo nostro, un modo tutto saracenaro.
Lentamente i fedeli rendono omaggio al Protettore e poi passando dalla sacrestia, posta sul lato destro dell’altare, cercano di farsi spazio attraverso le navate laterali fino all’uscita, dove si torna a respirare dopo essere stati avvolti da una marea umana di ogni età. Ci si incammina verso i quartieri, i “vicinanz”, dove è tutto pronto per condividere la cena con i propri vicini e amici, all’aria aperta o in luoghi organizzati, con musiche e balli, accogliendo gli avventori che passeggeranno tutta la notte e offrendo loro un bicchiere di vino, delle olive, un pezzo di salsiccia o i “cannaricoli”, dolcetti tipici che contengono un ingrediente speciale: il moscato di Saracena, delizioso vino liquoroso e presidio Slow Food di cui le donne di ogni famiglia custodiscono gelosamente la ricetta e che mette ancora più gioia se bevuto di fronte a un falò ardente, ascoltando racconti antichi e ridendo in compagnia.
La festa termina alle prime luci dell’alba, quando delle cataste di frasche profumate non rimane che un mucchio di rametti, quando quasi tutti i “fucarazzi” sono spenti e gli ultimi abitanti tornano alle loro case per riposare dopo la notte insonne, quando le strade sono coperte di cenere e l’aria odora di fumo.
La meraviglia del rito si è compiuta di nuovo, un rito dai tratti unici e autentici, profondamente sentito dalla comunità di Saracena, che non rinuncia per una notte a chiudersi in se stessa e contemporaneamente ad accogliere, regalando a chiunque voglia raggiungere questo borgo immerso nel Parco Nazionale del Pollino un’esperienza senza tempo, immutabile e immutata, per alcuni scioccante, ma certamente indimenticabile e da preservare.